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La III A della Secondaria di I grado di Grizzana ragiona sugli stereotipi e sul bullismo

Guarda i video realizzati dalla  Classe III A della Scuola Don Milani di Grizzana Morandi.

Nell’autunno 2018 le allieve e gli allievi della III della Scuola Secondaria di I grado Don Milani di Grizzana Morandi, hanno partecipato al laboratorio “Diverso da chi?” all’interno del progetto “Portiamo a scuola la comunicazione di genere: NarrAzione di genere 2018“. curato dalle socie di Associazione Youkali APS Valeria Porretta, Ruben Lazzerini e Giuliana Giordano.

Il gruppo classe ha realizzato un video spot contro il bullismo insieme alle socie e soci di Youkali Valeria Porretta, Ruben Lazerini e Giuliana Giordano.

 

Docenti, ragazzi e ragazze, formatrici e formatori hanno ragionato insieme anche sugli stereotipi di genere partendo dall’analisi delle pubblicità televisive.

In questo video i loro commenti.

 

Nel corso del laboratorio allievi e allieve hanno poi lavorato sullo storytelling creando brevi racconti, che trovate nelle pagine di questo sito, immaginandosi proiettati in un futuro senza stereotipi.

Il sogno di Abdul

Abdul, era un ragazzo che giocava in una squadra di calcio, vicino a casa sua, dove veniva deriso dai compagni a causa della sua provenienza e per il suo modo strano di correre.
Lui non era bravo a giocare a calcio e anche per questo veniva preso in giro. Un giorno decise di impegnarsi così tanto da diventare fortissimo ed usare lo sport come riscatto contro i compagni.
Ogni volta che tornava da allenamento era triste, tutti i suoi compagni lo insultavano ma lui non mollava, ce la metteva tutta per inseguire il suo sogno: giocare a pallone in una grande squadra.
Dopo solo un anno Abdul venne chiamato da una grande club di calcio per il suo impegno e per la sua determinazione.
Non ci poteva credere che solo dopo così poco avesse fatto un cambiamento dalla a alla z, la sua emozione era indescrivibile perché non si aspettava tutto ciò.
I suoi compagni quando vennero a conoscenza che lui avesse fatto un provino al BOCA FICO capirono che era un ragazzo coraggioso, anche se lo avevano già notato da un po’ e gli porsero subito le scuse di tutte le cattiverie che gli avevano fatto, diventando i suoi fan più accaniti. Abdul era contentissimo di giocare in una squadra importante dopo tutto l’impegno che ci aveva messo e per aver fatto pace con i suoi amici.

A cura di Tommaso Gironi, alunno della classe III C della Scuola Secondaria di Primo Grado “Moruzzi” di Ceretolo, per il progetto “Portiamo a scuola la comunicazione di genere: NarrAzione di Genere 2018”, finanziato dalla Regione Emilia Romagna

Discriminazione a tavola

Il giorno del mio compleanno i miei genitori mi hanno portato a mangiare fuori, là abbiamo incontrato i nonni che si sono fermati un po’ di giorni a casa nostra. All’inizio è andato tutto bene, eravamo andati in uno di quei ristoranti dove servono il cibo a buffet, ci siamo alzati un paio di volte perché il cibo era abbastanza buono.
Stavamo mangiando il secondo, quando i signori accanto a noi se ne sono andati e hanno fatto sedere altri uomini, dietro i camerieri però sono arrivati degli uomini di colore che si sono messi a dire che loro erano arrivati prima delle persone che si erano appena sedute, però i camerieri non li ascoltavano, dicendo di aspettare.
Alla fine, arrivati al dolce li hanno fatti sedere in un tavolo in disparte, vicino alla cucina dicendo che era così perché il cibo poteva arrivare prima ma in realtà volevano controllarli meglio.
Alla fine, al momento di pagare il conto, un uomo si è rivolto ai camerieri dicendogli che stavano discriminando quelle persone.

A cura di Gabriele Bendini, alunno della classe III C della Scuola Secondaria di Primo Grado “Moruzzi” di Ceretolo, per il progetto “Portiamo a scuola la comunicazione di genere: NarrAzione di Genere 2018”, finanziato dalla Regione Emilia Romagna

Un racconto di discriminazione

Ho sempre amato leggere. Leggo da quando ho sei anni, e prima di quel momento magnifico in cui ho imparato ad associare quei segni contorti scritti con l’inchiostro – che altro non erano lettere – a dei suoni ben distinti, era mio padre a leggermi tutte le storie che ora conosco. Tutte quelle storie bellissime, che ogni tanto cerco di replicare scribacchiando qualche riga sul quaderno che uso per scrivere i miei testi. Quando mi vede scrivere, con un libro accanto come portafortuna, mamma mi dice sempre che secondo lei io «sono nata con un libro in mano».
Quando leggo, sono felice. Tanto, perché tutti i libri che leggo, tutte quelle parole nero su bianco e quelle storie spettacolari saltate fuori chissà da dove, mi permettono di scappare dai problemi del mondo. E da quelli della scuola. Soprattutto da quelli.
Amo sentire la carta bianca scorrere sotto le dita, non troppo ruvida ma nemmeno del tutto liscia. Hanno un profumo indescrivibile,quelle pagine. Ci sono libri che odorano del legno degli scaffali, della polvere che ne ha accarezzatola rilegatura vecchia e fragile. Quei libri che profumano di sole e salsedine, letti in riva al mare con i e capelli gocciolanti acque. Altri che ricordano l’odore dei mercatini autunnali e le caldarroste, il cui profumo pervade le narici di un familiare calore. Altri ancora che sanno di foglie secche e neve fresca. Tutti profumi che colmano il silenzio della stanza in cui di solito leggo.
Non pensavo però che sarebbero stati proprio i libri a rifilarmi il titolo che ora mi porto sulle spalle, meno utile di un granello di polvere eppure tanto pesante. Non lo sopporto. Per non parlare del ruolo che occupano occhiali e apparecchio in questo gioco per niente piacevole. Tutti, almeno una volta, mi hanno chiamata «quattrocchi dai denti a castoro». Però non è colpa mia se l’ipermetropia si fa sentire ogni giorno sempre di più, in qualunque momento. E poi, i miei denti non sono nemmeno tanto storti. Anzi, è un’imperfezione minima quella che l’apparecchio corregge. A scuola, nessuno vuole mai sedersi accanto a me.
«Stai scherzando? Non voglio diventare come lei».
«Forse in uno dei suoi libri c’era qualche malattia strana e lei se l’è presa».
«E poi non parla mai durante le lezioni, a volte nemmeno a ricreazione; non ti fa mai copiare, è la preferita di tutti i professori… no, io accanto ad un’asociale come lei non ci voglio stare».
È forse un crimine stare attenti a scuola? A che ricordo io, no. Lo dicono sempre tutti che pagherebbero oro pur di prendere una sufficienza, e poi quando gli chiedo se vogliono un aiuto per studiare, le risposte sono sempre le solite.
«No, devo uscire con le mie amiche».
«Stai scherzando? Devo giocare alla play questo pomeriggio, non posso perdere tempo!».
«No, penso che chiederò a mia mamma di farmi saltare scuola».
Insomma, non ho la peste. E nemmeno i libri ce l’hanno! Finché però la situazione si limita a questo, la cosa non mi tocca poi così tanto. Ci resto male, sì, perché è ovvio che nessuno mi voglia.

A cura di Ludovica Scarpello, alunna della classe III C della Scuola Secondaria di Primo Grado “Moruzzi” di Ceretolo, per il progetto “Portiamo a scuola la comunicazione di genere: NarrAzione di Genere 2018”, finanziato dalla Regione Emilia Romagna

2018, un mondo senza stereotipi

Un mondo senza stereotipi… interessante come idea, davvero. Alcuni problemi si risolverebbero, almeno in parte, mentre altri sparirebbero completamente. Se gli stereotipi non fossero mai esistiti, forse alcuni problemi non sarebbero mai nati. Per non parlare poi di un mondo senza pregiudizi… allora sì che staremmo tutti meglio.
Fra vent’anni saremo tutti più grandi. Anche chi oggi ha appena compiuto un anno, per allora sarà già adulto. E se fra vent’anni il nostro mondo migliorasse, almeno un poco? Immaginate, un mondo senza stereotipi… che meraviglia!
Fra vent’anni, io ne avrò trentatré. Di anni, ovviamente. Sarà già passato tanto tempo, da adesso. Non sarò più una ragazzina, che si sente sempre il mondo contro e coinvolta in un’eterna lotta contro il giorno, come non sarò più una bimba con la voglia di crescere per sfuggire al presente. Forse, per allora, sarò già una donna. Anzi, quasi sicuramente. Sarò una donna, con una percezione del mondo diversa da quella che ho adesso; spero però di avere ancora quella facoltà di sognare e fantasticare ad occhi aperti che oggi, di tanto in tanto, viene ancora a trovarmi. Fra vent’anni, vorrei vivere in un mondo in cui finalmente amore, odio e amicizia si baseranno sulla realtà, e non su stupidi pregiudizi – perché solo così si possono definire, stupidi e insensati –.
Perché non vorrei mai che i miei figli, un giorno, tornassero da scuola e mi dicessero: «Mamma… a scuola c’è un bambino che mi prende in giro. Mi dice che sono grassa, e che non piaccio a nessuno».
«Ad allenamento c’è un ragazzo che continua a rinfacciarmi che non so giocare a calcio.. anche se questo non mi interessa molto. Mi rinfaccia di continuo che non so fare nulla, che sono pessimo, che non so fare nulla. Non lo sopporto più».
Sono queste le conseguenze dei pregiudizi, un po’ meno forse degli stereotipi. Le conseguenze del “fermarsi all’apparire”. Che poi, a che scopo sono nate queste parole?
Per far stare male chi viene afferrato dai loro artigli?
Per creare problemi, incomprensioni e divisioni fra le persone?
Sono convinta che, come si dice spesso in un libro che sto leggendo in questi giorni, «il caso non esista». Se queste parole sono nate, avranno pur uno scopo. O forse mi sbaglio?
E se, tutto d’un tratto, i loro significati bruciassero e scomparissero per sempre? Il mondo starebbe meglio, mi permetto di dire. Starebbero meglio gli adulti, che non si troverebbero più costretti a fronteggiare tanti problemi. Come starebbero meglio anche i bambini. Si sa, in quasi ogni classe c’è almeno un bambino che viene preso in giro. Per milioni di motivi, come per nessun motivo. Ed io, per esperienza, vi dico che non è piacevole essere quel bambino.
Senza pregiudizi staremmo tutti meglio. Banalmente, sparirebbe anche l’associare un ragazza bionda ad una ragazza stupida. Perché dobbiamo sempre giudicare l’intelligenza delle persone in base al loro aspetto o ai loro voti a scuola. Una persona potrebbe vestirsi malissimo, avere i capelli spettinati, le occhiaie e un cinque in matematica, eppure essere molto più intelligente di chi magari si veste con maglie firmate e ha un dieci in scienze. Per non parlare poi di tutti quegli stereotipi tra maschi e femmine. Sono forse diverse le femmine, le ragazze, le donne?
Per cosa?
Cosa abbiamo di diverso noi?
Io questo mi chiedo… perché non siamo considerate al pari degli uomini, molte volte. Anche solo, ad esempio, durante le ore di ginnastica, a scuola, mi rendo conto di tutto questo. Quante volte, nelle ore di basket, i ragazzi sbuffano perché gli è capitata una ragazza in squadra “a svantaggiarli”?
E quante volte una ragazza che ha chiesto di poter giocare a calcio con i suoi compagni è stata derisa dai ragazzi perché impensabile e dalle ragazze perché ridicola?
Ma non sono solo le ragazze ad essere vittime di queste discriminazioni. Anche i ragazzi, certo, ma per quanto ho visto io fino ad ora i maschi sono meno “colpiti” dagli stereotipi. Ma non per questo non ne hanno. Ci basti pensare all’uomo che non ha mai bisogno d’aiuto, che si risolve sempre i problemi da solo. «Gli uomini non piangono», anche questo è uno stereotipo. Un’idea sbagliata.
La vogliamo smettere di mettere etichette a tutti? Non siamo il centro del mondo, o dell’universo, e non siamo nessuno per giudicare le altre persone. Ci crediamo sempre superiori, ma fino a che punto lo siamo veramente? Non lo siamo, ecco il punto. Perciò, piantiamola di assegnare etichette a tutti. Siamo persone, non barattoli della marmellata!
Adesso, però, voglio rivolgermi a te. A te che stai leggendo, sì. Non ti spaventare, tranquillo, non ti mangerò. Iniziamo con le cose serie ora, che forse in fin dei conti è meglio.
Lo vedi il cartellino che hai addosso?
Proprio lì, all’altezza del petto. Sulla sinistra.
Cosa dice?
«Grasso»?
«Stupido»?
«Maschiaccio»?
Ce ne sono così tanti di appellativi, e ognuno ha il suo. Purtroppo.
C’è scritto «ladro», per caso?
«Insensibile»?
«Inutile»?
Leggilo ad alta voce, quel cartellino inutile che ti è stato affibbiato. E poi guardati allo specchio. È infondato, insensato, vero? Sì, la maggior parte delle volte è così. Allora c’è una sola cosa che puoi fare.
Strapparlo. Levartelo di dosso, ora.
Perché solo così potrai sentirti veramente libero. Toglilo, e mostra a tutti che finalmente sei senza quel cartellino, che sei di nuovo libero. Faglielo vedere, a quelli che te lo hanno assegnato, che sei ancora in piedi. E diglielo, urlaglielo, che non hai bisogno dei loro pareri sbagliati. Diglielo, urlaglielo, che tu sei così, che ti piaci per quello che sei, quello che fai, e che loro non hanno il potere di cambiarti.
Senza stereotipi e senza pregiudizi staremmo tutti meglio.
Niente più razzismo, niente più emarginazione.
Quante cose finirebbero!
Stop alle prese in giro, alle dicerie che tutti noi ci portiamo sulle spalle solo a causa del nostro cognome, stop al maschilismo. E facciamo in modo di essere tutti liberi, più felici.
Perché, ne sono convinta, senza pregiudizi, senza stereotipi, staremmo tutti meglio.

A cura di Ludovica Scarpello, alunna della classe III C della Scuola Secondaria di Primo Grado “Moruzzi” di Ceretolo, per il progetto “Portiamo a scuola la comunicazione di genere: NarrAzione di Genere 2018”, finanziato dalla Regione Emilia Romagna

Storia di Aziz

Era un giorno come gli altri a scuola.
Ad un certo punto entrò in classe un nuovo studente,veniva dall’ Africa e il suo nome era Aziz.
A ricreazione parlai con lui e mi raccontò del suo paese e delle sue passioni.
Disse che il suo sport preferito era il Basket e che gli sarebbe piaciuto diventare un professionista.Il giorno dopo a lezione di ginnastica giocammo a Basket. Alcuni nostri compagni lo presero in giro e spingendolo sempre in terra quando ne avevano l’occasione, dicendogli che era troppo scarso per giocare e di tornare al proprio Paese.
Alla fine dell’anno Aziz era diventato molto bravo ed era entrato in una squadra competitiva e quando incontrò,in una partita importante, i compagni che lo avevano deriso, li batté facendogli capire di non prenderlo più in giro perché era più forte di loro.
Aziz riuscì a realizzare il suo sogno e diventò un professionista.

A cura di Mattia Anzaldi, alunno della classe III C della Scuola Secondaria di Primo Grado “Moruzzi” di Ceretolo, per il progetto “Portiamo a scuola la comunicazione di genere: NarrAzione di Genere 2018”, finanziato dalla Regione Emilia Romagna

Storia di una vacanza

Era il mese di agosto del 2017 e la famiglia Berti originaria di Milano, aveva deciso di
passare una settimana dei loro quasi 2 mesi di vacanza in Sardegna. Era una famiglia
benestante, che si sentiva superiore agli altri e con la puzza sotto il naso, il padre uno
stimato ingegnere e la madre un’affermata avvocatessa, con i loro due figli Luca di 9 anni
e Martina di 7 anni, capricciosi e lagnosi. Arrivati in albergo si sistemarono nella loro
suite, presero i teli da mare, le creme solari e la borsa con gli occhialini per i bambini
e andarono nella spiaggia privata dell’hotel; un bagnino dai modi cortesi e gentili, li
accompagnò alla prima fila dello stabilimento balneare, aprì l’ombrellone e
sistemò le sdraio, dopo aver messo la crema ai bambini entrarono tutti in acqua a farsi
un bel bagno, la giornata sembrava essere perfetta… Nel tardo pomeriggio arrivarono in
spiaggia una famiglia proveniente dal Sud Africa, che furono collocati vicino ai signori
Berti; anche loro avevano due bambini, erano due gemelli di otto anni, con due grandi e
profondi occhi neri e dalla faccia buffa e simpatica e fecero subito amicizia con i figli dei
signori Berti. I genitori di Luca e Martina si inventarono ogni tipo di scusa per non farli
stare insieme, ma invano, perché fortunatamente i bambini non hanno pregiudizi e non
fanno differenze di nessun tipo, così, dopo un po’, non tollerando più quella compagnia
per i loro figli, secondo loro “sporchi” (aggettivo con cui soprannominavano i due
gemellini Abdul e Miriam) andarono a reclamare in direzione, lamentandosi del fatto che
non volevano stare vicino ai Sud Africani, dicendo che i loro figli potevano essere
contagiati chissà da quale malattia, che erano una famiglia chiassosa e senza buone
maniere, quindi volevano essere cambiati di posto. Il responsabile dello stabilimento non
credeva alle sue orecchie, si infuriò dicendo che in 30 anni di carriera non aveva mia
sentito una sciocchezza simile e che non li avrebbe mai e poi mai spostati da un’altra parte,
perché anche la famiglia sud-africana aveva pagato come tutti gli altri e aveva gli stessi
loro diritti di stare lì. Nel frattempo che i Berti stavano tornando al loro posto offesi e
arrabbiati, si sentì un grido disperato di “Aiutooooooooo!!”; l’avvocatessa riconobbe
subito la voce della figlia e si precipitò in riva al mare, non si era sbagliata: Martina stava
affogando. Senza pensarci due volte il papà dei gemelli si buttò in acqua e portò in salvo
la piccola, furono attimi di terrore, perché Martina era viola e non respirava, le batté
delicatamente la mano sulla spalla per liberarla dall’acqua che aveva ingoiato, ma non
reagiva, allora iniziò a farle la respirazione bocca a bocca e, dopo attimi che sembravano
un’eternità la bimba iniziò a tossire: era salva! Il papà dei gemelli, con un sorriso che
mostrava la sua dentatura perfetta disse semplicemente: “I dottori servono a questo”. I
Berti sollevati e rossi dalla vergogna, ringraziarono e si scusarono per il loro
comportamento. Il resto della vacanza proseguì magnificamente, le due famiglie
sembravano amici di vecchia data, trascorsero il tempo sempre insieme, fra risate,
chiacchiere e armonia, si era instaurato un rapporto di fiducia e amicizia…

A cura di Samuele Bruno, alunno della classe III C della Scuola Secondaria di Primo Grado “Moruzzi” di Ceretolo, per il progetto “Portiamo a scuola la comunicazione di genere: NarrAzione di Genere 2018”, finanziato dalla Regione Emilia Romagna

Un mondo meno complicato

Come sarebbe bello vivere in una società dove ognuno, indipendentemente dall’essere
uomo o donna, può fare il lavoro che più gli piace, quello che gli dà più soddisfazione,
che lo diverte, senza sentirlo solo con un dovere ma anche come un passatempo.
A mio avviso ne deriverebbero molteplici vantaggi: innanzitutto ognuno
sarebbe più felice, più di buon umore, affronterebbe la vita compiuta con più
leggerezza e ottimismo; si soffrirebbe meno di ansia e forse anche la depressione non
esisterebbe.
Penso che sarebbe anche più facile integrarsi, si avrebbe modo di confrontarsi alla pari
e nessuno si sentirebbe inferiore ad un altro o essere ridicolizzati se si svolge un lavoro
considerato prettamente maschile o femminile.
Immagino un mondo meno complicato, dove non si viene giudicati solamente per dei
pregiudizi, dove non esistono le prese in giro e anche dove sarà “normale” se portando
la macchina dal meccanico sarà una donna a farti il lavoro e a riconsegnartela come
nuova o andando a casa del tuo amico trovare il papà alle prese con i fornelli, il bucato
e l’aspirapolvere. (Chi l’ha detto che il lavoro casalingo è solamente femminile?)

A cura di Samuele Bruno, alunno della classe III C della Scuola Secondaria di Primo Grado “Moruzzi” di Ceretolo, per il progetto “Portiamo a scuola la comunicazione di genere: NarrAzione di Genere 2018”, finanziato dalla Regione Emilia Romagna

In giro per Bologna

Quando ero piccola mio zio mi raccontò un’ esperienza di discriminazione successa davanti i suoi occhi.
Tutto iniziò dopo una deliziosa cena. Decisero quindi di andare a fare una passeggiata in centro a Bologna per smaltire un po dei tortellini in brodo mangiati precedentemente.
Dopo aver camminato 10 minuti sotto i portici decisero di incamminarsi verso Piazza Maggiore, secondo mio zio la piazza più bella di Bologna.
Dopo aver fatto un bel giretto decisero di andare in una via piena di negozi e mercatini ambulanti, era pieno di luci che illuminavano i prodotti in vendita e profumi che passavano da una torta al cioccolato a una pizza appena sfornata.
Passarono anche davanti un mercatino ambulante che vendeva borse e si accorsero che un uomo stava discutendo con il venditore. Dopo 5 minuti l’uomo iniziò ad alzare la voce sempre di più attirando l’attenzione delle persone intorno.
L’uomo diceva:”ridammi i miei soldi, queste borse sono false! Tornatene nel tuo paese!” Il venditore aveva la pelle nera, quindi probabilmente l’uomo era solo un razzista che cercava di derubare il venditore inventando scuse. L’uomo estrasse una pistola dalla tasca dei pantaloni minacciando il venditore che se non gli avesse dato in dietro dei soldi gli avrebbe sparato. Non fece in tempo a finire di minacciarlo che subito arrivarono la polizia e i militari: probabilmente chiamati da una persona che stava guardando l’accaduto. i poliziotti arrestarono l’uomo armato e provarono che il venditore era legalmente in regola.
Sfortunatamente al giorno d’oggi esistono vari tipi di discriminazione e sono spesso presenti ovunque tu vada.

A cura di Eleonora Fini, allieva della classe III C della Scuola Secondaria di Primo Grado “Moruzzi” di Ceretolo, per il progetto “Portiamo a scuola la comunicazione di genere: NarrAzione di Genere 2018”, finanziato dalla Regione Emilia Romagna

Discriminazioni

Un mese fa ero sull’autobus con mia mamma, quando successe una cosa incredibile.
Appena salito, un anziano iniziò ad urlare contro una persona che era seduta nel posto riservato agli anziani.
La persona era un ragazzo di colore, aveva gli auricolari e stava ascoltando la musica, perciò non poteva sentire il vecchio gridare. Dopo poco l’uomo iniziò a insultarlo pesantemente per il colore della sua pelle fino a quando l’autista si fermò e fece scendere l’anziano dall’autobus.

A cura di Matteo Garelli, allievo della classe III C della Scuola Secondaria di Primo Grado “Moruzzi” di Ceretolo, per il progetto “Portiamo a scuola la comunicazione di genere: NarrAzione di Genere 2018”, finanziato dalla Regione Emilia Romagna