Un racconto di discriminazione

Ho sempre amato leggere. Leggo da quando ho sei anni, e prima di quel momento magnifico in cui ho imparato ad associare quei segni contorti scritti con l’inchiostro – che altro non erano lettere – a dei suoni ben distinti, era mio padre a leggermi tutte le storie che ora conosco. Tutte quelle storie bellissime, che ogni tanto cerco di replicare scribacchiando qualche riga sul quaderno che uso per scrivere i miei testi. Quando mi vede scrivere, con un libro accanto come portafortuna, mamma mi dice sempre che secondo lei io «sono nata con un libro in mano».
Quando leggo, sono felice. Tanto, perché tutti i libri che leggo, tutte quelle parole nero su bianco e quelle storie spettacolari saltate fuori chissà da dove, mi permettono di scappare dai problemi del mondo. E da quelli della scuola. Soprattutto da quelli.
Amo sentire la carta bianca scorrere sotto le dita, non troppo ruvida ma nemmeno del tutto liscia. Hanno un profumo indescrivibile,quelle pagine. Ci sono libri che odorano del legno degli scaffali, della polvere che ne ha accarezzatola rilegatura vecchia e fragile. Quei libri che profumano di sole e salsedine, letti in riva al mare con i e capelli gocciolanti acque. Altri che ricordano l’odore dei mercatini autunnali e le caldarroste, il cui profumo pervade le narici di un familiare calore. Altri ancora che sanno di foglie secche e neve fresca. Tutti profumi che colmano il silenzio della stanza in cui di solito leggo.
Non pensavo però che sarebbero stati proprio i libri a rifilarmi il titolo che ora mi porto sulle spalle, meno utile di un granello di polvere eppure tanto pesante. Non lo sopporto. Per non parlare del ruolo che occupano occhiali e apparecchio in questo gioco per niente piacevole. Tutti, almeno una volta, mi hanno chiamata «quattrocchi dai denti a castoro». Però non è colpa mia se l’ipermetropia si fa sentire ogni giorno sempre di più, in qualunque momento. E poi, i miei denti non sono nemmeno tanto storti. Anzi, è un’imperfezione minima quella che l’apparecchio corregge. A scuola, nessuno vuole mai sedersi accanto a me.
«Stai scherzando? Non voglio diventare come lei».
«Forse in uno dei suoi libri c’era qualche malattia strana e lei se l’è presa».
«E poi non parla mai durante le lezioni, a volte nemmeno a ricreazione; non ti fa mai copiare, è la preferita di tutti i professori… no, io accanto ad un’asociale come lei non ci voglio stare».
È forse un crimine stare attenti a scuola? A che ricordo io, no. Lo dicono sempre tutti che pagherebbero oro pur di prendere una sufficienza, e poi quando gli chiedo se vogliono un aiuto per studiare, le risposte sono sempre le solite.
«No, devo uscire con le mie amiche».
«Stai scherzando? Devo giocare alla play questo pomeriggio, non posso perdere tempo!».
«No, penso che chiederò a mia mamma di farmi saltare scuola».
Insomma, non ho la peste. E nemmeno i libri ce l’hanno! Finché però la situazione si limita a questo, la cosa non mi tocca poi così tanto. Ci resto male, sì, perché è ovvio che nessuno mi voglia.

A cura di Ludovica Scarpello, alunna della classe III C della Scuola Secondaria di Primo Grado “Moruzzi” di Ceretolo, per il progetto “Portiamo a scuola la comunicazione di genere: NarrAzione di Genere 2018”, finanziato dalla Regione Emilia Romagna